UN’EUROPA DEMOCRATICA COME SVILUPPO DELLA NAZIONE ITALIANA
In quale Europa viviamo, ma soprattutto, in quale Europa vogliamo vivere nei prossimi anni?
Pensiamo di poter mantenere un’identità nazionale, pur aderendo a regole e leggi decise in Europa, oppure crediamo di dover essere del tutto assoggettati a scelte che cascano dall’alto?
La realtà dei fatti non è così semplicemente etichettabile. Non si può fare un ragionamento fatto di bianchi e di neri. L’italia in Europa e l’Europa come sviluppo del nostro Paese sono elementi ricchi di sfumature e di punti di vista, a seconda del punto da cui la si osserva.
L’Europa sin da quando la Lega ha visto la luce è un pensiero ricorrente, che torna nelle proposte e nelle elaborazioni politiche.
Già verso la fine degli anni ’80 si trovano documenti politici il cui riferimento, all’epoca federalista, vedeva nell’Europa l’unione non solo di genti ma di proposte di governo.
L’idea dell’Europa non può essere messa in discussione. Tuttavia la domanda che gli italiani dovrebbero porsi, e sulla quale svolgere un ragionamento è: come può l’Italia sviluppare al meglio le proprie politiche economiche, produttive e sociali all’interno dell’Europa?
Faccio un piccolo passo indietro. Secondo un sondaggio effettuato lo scorso anno in tutti i paesi europei, gli italiani risultano essere il popolo con la minor considerazione di un concetto di “Europa positiva”. Solo il 36% degli intervistati crede infatti che l’Europa sia “Una cosa buona” rispetto alla media europea del 61%. La domanda, evidente, è a questo punto: che cosa succede in Italia? Tutti gli italiani sono abbagliati da una propaganda antieuropeista oppure c’è dell’altro?
La prima analisi sarebbe davvero troppo semplicistica.
In generale, l’atteggiamento dei cittadini europei nei confronti dell’Europa non è positivo. Ma da dove deriva questo peggioramento dell’umore e, nel complesso, dell’atteggiamento? L’Italia, se si incrociano i dati economici con quelli presentati dall’Eurobarometro è tra quei Paesi che più stanno soffrendo una situazione economica piuttosto ristagnante.
E’ evidente come in Italia, e così come negli altri paesi europei, il giudizio critico sull’Unione Europea vada piuttosto di pari passo con il giudizio critico sul proprio Paese: le maggiori critiche sull’Europa provengono esattamente da chi è più critico verso la propria nazione.
Non si può, in un’analisi obiettiva del contesto, non considerare che la metà degli europei, mediamente, ritenga che quanto sta realizzando l’Europa stia andando “nella direzione sbagliata”. E i dati sorprendono, poiché sono i francesi e i greci ad essere i più pessimisti secondo il sondaggio (con il 66% di persone che pensa che l’Europa stia andando nella direzione sbagliata). E se sorprendono meno i Greci, certamente deve far riflettere il giudizio dei francesi. Gli italiani dello stesso avviso sono il 58%, seguiti da cechi e spagnoli (56%). Sorprende meno il dato francese se si considera che a un tale giudizio si affianca generalmente un’opinione negativa circa l’andamento del proprio paese. In Francia e Grecia, infatti, ben il 77% e 76% dei cittadini, rispettivamente, ritiene che le cose vadano nella direzione sbagliata nel proprio paese; in Spagna questi sono il 68% mentre in Italia i preoccupati sono il 52%.
Sono dati che possono destare una certa preoccupazione. Ma quale risposta può dare l’Italia a queste persone?
Si tenga conto che, a fronte di una tale disaffezione alle politiche europee, non si riscontra una omologa disaffezione al concetto di politiche europeiste. In altre parole, sarebbe facile immaginare che chiedendo agli italiani, o ai francesi, di uscire da questa stretta europeista, la risposta sarebbe positiva e coordinata con le critiche. Ma sorprendentemente non è così.
Se viene chiesto loro se “la protesta contro l’Europa voluta dalle élite politiche tradizionali sia motivo di preoccupazione”, infatti, la maggioranza degli europei (61%) e il 50% degli italiani risponde di sì, cui va aggiunto un 13% di indecisi.
Gli italiani non voterebbero un “leave” dall’Europa. Richiamiamo però il dato precedente: non vogliono uscire, ma non sono soddisfatti dello stato delle cose attuali. Ed è proprio grazie a questa analisi che dobbiamo comprendere come alcune dinamiche nei rapporti tra Stato e Unione Europea vadano rimodellati.
Gli italiani, come gli europei, vorrebbero che il ruolo del Parlamento Europeo venisse rafforzato, in maggioranza (48% contro una media UE del 54%), non indebolito, e in gran numero essi ritengono che negli ultimi cinque anni esso non sia stato sufficientemente determinato. Gli italiani, come gli europei, vorrebbero che il Parlamento Europeo avesse un ruolo più importante. Un ruolo più attivo, perché votato democraticamente, ma anche perché gli italiani, tra gli europei, sono quelli che meno ritengono che la loro voce sia ascoltata in Europa e dal loro proprio governo. Su questa ultima analisi bisogna lavorare: è necessario accrescere in rappresentatività e non come numero, ma come incidenza sulle politiche europee.
Ed ecco il nodo della questione? Come farlo? Come diventare maggiormente credibili in Europa?
Il punto di partenza deve essere quello che consideri l’Italia fra i primi Paesi in Europa. Il nostro Paese, nel proporre le proprie politiche, non deve considerarsi secondo a nessuno, nè a Bruxelles né tanto meno alla Francia. Servono politiche nazionali che non si fermino più entro i nostri confini. Governare l’Italia oggi impone un obiettivo di ampia scala e con aspettative diverse rispetto a quanto fatto sino ad ora: è necessario riportare coesione sociale, fratellanza e unità in un continente che, diversamente, allo stato attuale delle cose, rischia di essere schiacciato da ogni parte. Eccolo qui il concetto di sviluppo dell’Europa legato all’Italia: uno sviluppo che in modo inscindibile a doppio filo con lo sviluppo delle politiche italiane per migliorare l’Europa.
Che cosa può far cambiare le percezioni del rapporto di cui ho parlato prima? Certamente immaginare un’Italia che non sia soltanto un enorme mercato di consumatori di merci ideate e prodotte dall’altra parte del mondo.
L’Italia tornerà in una fase di sviluppo se l’Europa tornerà ad essere la culla della civiltà che è stata in passato: fondata su Comuni, Regioni e quindi Nazioni, ma soprattutto sui singoli popoli, capace di comprendere le necessità dei singoli Stati. Ad ogni latitudine e longitudine l’Europa è l’insieme della storia di culture diverse. Non possiamo immaginare di perdere le singole identità, le culture, le storie, le tradizioni di ogni Paese che ne fa parte per diventare soltanto una massa di consumatori. Il Trattato di Maastricht, scritto quasi trent’anni fa, e lo cito, parla in questi termini: “la comunità ha il compito di promuovere una crescita sostenibile, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli stati membri”. Queste erano le basi su cui costruire l’Europa. Basi che lentamente, nel non volerle perseguire, sono state disattese.
Una comunità europea fondata sul rispetto, sul lavoro e sul progresso economico e sociale è la chiave di volta per accelerare lo sviluppo del nostro Paese e per cambiare le percezioni degli italiani, facendo al contempo crescere in loro, in noi, il senso dello Stato e dell’Europa.
Poste queste basi ideali e democratiche nel rapporto tra Europa e Italia e viceversa, si può comprendere meglio quali possono essere le ricadute pratiche, il cui esempio più lungimirante per lo sviluppo delle nostre imprese, è iscritto nei fondi Europei che aiutano fortemente la crescita della nostra produttività.
Voglio concludere richiamando anche il fenomeno delle migrazioni, che non può, e non deve, perché non ha senso, restare un’emergenza da gestire per i soli italiani.
Il contrasto alla tratta, al traffico migratorio criminale e allo sfruttamento di esseri umani deve essere severo, inflessibile e deve avvenire in collaborazione con le polizie europee e dei paesi africani, mediterranei e mediorientali con cui attivare accordi: questo è inevitabile.
O così, oppure i problemi di gestione diventano insostenibili. L’Europa deve farsi interprete delle necessità e non limitarsi a tavoli e commissioni sterili, che alla fine non decidono o decidono di lasciare le cose come stanno. La Lega al governo ha dato esempi chiari, dati alla mano, di come un fenomeno migratorio con tutta probabilità inevitabile possa non diventare un problema sociale per la sola Italia.
La gestione del fenomeno migratorio è un esempio lampante di come essere Europa debba andare oltre la semplice condivisione delle politiche economiche: un atteggiamento da più parti richiesto e mai del tutto applicato. E’ su questo elemento che è necessario insistere e lavorare.
Nel corso degli ultimi venticinque anni, l’Europa è diventata una meta centrale nella geografia migratoria globale. I motivi sono diversi: per posizione geografica, per struttura demografica e sociale il continente europeo è fortemente esposto a migrazioni spontanee e, se non controllate nei flussi, passatemi il termine fra virgolette «indesiderate». E’ necessario non lasciar passare ulteriore tempo e trasformare questa tendenza in flussi selettivamente programmati. Lo deve fare l’Europa, non l’Italia da sola. In questo modo l’Unione Europea diventa davvero centrale nello sviluppo delle proprie politiche, che ricadono così equamente sugli stati membri. La difficoltà di far corrispondere la realtà migratoria con le aspirazioni e i bisogni strutturali dei vari paesi rappresenta una delle sfide centrali per il futuro delle società e delle istituzioni europee.
Se l’Europa però non andrà oltre, nei rapporti con gli Stati membri, alle ispezioni, ai commissariamenti, ai piani di soccorso finanziario, agli spread, è alle micro percentuali da rispettare nelle leggi di bilancio, è destinata a fallire. E’ un monito importante che deve indirizzare l’incidenza e la forza rappresentativa degli Stati membri a Bruxelles. Non più un’opportunità, ma un dovere per chi governa e che sulle ali dello sviluppo dell’Europa vuole vedere anche lo sviluppo dell’Italia.
On. Cristina PATELLI