IL DARDO DEL 25 APRILE 2018 – ECCO PERCHE’ CELEBRO UN ALTRO XXV APRILE

Ogni anno, nei dintorni del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso, di tricolori e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente.

E’ un atto legittimo e dovuto alla memoria. Meno male che ci stacchiamo dagli smartphone e ci sforziamo di ricordare. Dovremmo però iniziare a farlo anche con equità, visto che 70 anni fa, più o meno, abbiamo combattuto gli uni contro gli altri. E ci siamo uccisi anche, per ideali diversi.

Dei crimini commessi dai fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, perché la storia la scrivono generalmente i vincitori. Ma siamo sicuri di conoscere l’intera storia della resistenza? Il lato in chiaro e anche quello oscuro? Cosa sappiamo realmente dei processi sommari, delle fucilazioni, delle fosse comuni e dei soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri ai danni delle ausiliarie e delle donne fasciste? Davvero molto poco.

E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile cosa ci è fatto sapere? Praticamente nulla. Qualcosa ci ha raccontato il giornalista Pansa nei suoi libri onesti. Revisionisti, certo, ma per tentare di dare un senso ad una storia reale.

Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri appunto di Gianpaolo Pansa o di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena per citarne alcuni. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi.

Non capisco l’ostinazione di quelle associazioni di eredi come l’Anpi (ormai i partigiani sopravvissuti battono sui 90 anni e sono molto pochi) che insistono ad esempio nel definire i partigiani militari nonostante una sentenza del Tribunale Supremo Militare abbia negato loro tale status, attribuendolo invece ai combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana.

La sentenza del 26 aprile 1954 del Tribunale Supremo Militare Italiano afferma senza mezzi termini che: «i combattenti delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana avevano la qualità di belligeranti perché erano comandati da persone responsabili e conosciute, indossavano uniformi e segni distintivi riconoscibili a distanza e portavano apertamente le armi.  Gli appartenenti alle formazioni partigiane, viceversa, non avevano la qualità di belligeranti perché non portavano segni distintivi riconoscibili e non portavano apertamente le armi, né erano assoggettati alla legge penale militare»

Ci sono molti dubbi e tante pagine scure su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito. Certo è che rispetto a 40 anni fa oggi esistono consapevolezze diverse. E una storia vista anche dalla parte dei vinti. Scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, servirebbe un nuovo confronto finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla, come purtroppo avviene da oltre settant’anni. Per me la ricorrenza del 25 aprile dovrebbe essere questo.