QUELL’ANTIRAZZISMO CHE GUARDA GLI USA E CHIUDE GLI OCCHI IN ITALIA

Ieri a Biella un gruppo di antifascisti, esponenti del Pd locale, guidato dal segretario De Lima, un certo numero di persone nere e un gruppetto di italiani chi più, chi meno, legati al mondo della sinistra locale, ha manifestato per solidarietà contro l’uccisione di George Floyd, avvenuta negli Stati Uniti per mano di poliziotti bianchi a Minneapolis.

Pur non essendo sancito da alcuna carta o legge dal momento che il razzismo non dovrebbe più esistere, oggi negli Stati Uniti sta avvenendo una forte protesta sociale da parte della comunità nera (con la solidarietà di una certa parte della comunità bianca che non è mai richiesta fra l’altro dai neri americani).

E’ una protesta forte, violenta, come certe proteste ovviamente illegali sanno essere.

Oggi stiamo vivendo un momento storico difficile.

Siamo sormontati da crisi sanitarie, sociali ed economiche. In Usa, come in tutto il resto del mondo, si stanno nuovamente (posto che ci sia stato un periodo storico in cui non è stato così) stratificando diverse classi sociali e ogni malcontento patito da chi sta in basso è un pretesto valido per avviare una sommossa contro il “sistema”, mandando in scena ciò che altro non è se non una insofferenza nei confronti di chi sta meglio, viene trattato meglio dalla società, gode di maggiori diritti e favori.

In Usa, patria delle disuguaglianze da sempre, dove a contare prima di tutto c’è il denaro, vero spartiacque tra chi detiene il controllo e chi lo subisce, il razzismo nei confronti dei neri c’è sempre stato.

Persino un padre fondatore come George Whashington “possedeva” schiavi di colore che lavoravano nelle sue piantagioni.

E dai padri costituenti a salire, la situazione non è mai cambiata: i neri, mediamente, sono collocati più in basso dei bianchi nella scala sociale da sempre. Da quando furono deportati dall’Africa per lavorare nelle piantagioni americane.

La parità che oggi la legge sancisce è solo sulla carta, tanto che un poliziotto razzista può permettersi di togliere la vita a un nero per strada.

Un nero pregiudicato, ubriaco, non certo un esempio positivo per la società, ma che certamente non meritava di morire soffocato da una ginocchiata, subendo un trattamento certamente diverso da quello che avrebbe ricevuto se fosse stato bianco nelle medesime condizioni.

La morte di Floyd in Usa è stato l’innesco di una miccia che non aspettava altro che essere accesa. E la cronaca racconta come la violenza subita dall’uomo morto sul lato del marciapiede sia stata ripagata con la violenza ovunque dalla comunità afro: episodi di violenza, danneggiamenti, vandalismo. Con un solo paradigma: odio che ha risposto all’odio.
E’ giustificabile il comportamento del poliziotto che ha ucciso Floyd abusando del proprio potere, a sangue freddo? Certamente no.
E’ giustificabile la reazione violenta della comunità nera americana? Assolutamente no anche in questo caso.
Rispondere alla violenza con altra violenza costituisce solo un modo per generare all’infinito distanza e razzismo (da qualunque lato del colore lo si veda). Manifestare in difesa di chi oggi sta mandando in scena una protesta violenta, qui in Italia per giunta, qualifica chi la pratica.

Perché resta, tuttavia, un fatto esclusivamente statunitense.

Prendersi carico di una solidarietà contro il poliziotto bianco americano che ha ucciso Floyd in Italia, in Austria o in Germania è solo un modo per non perdere l’occasione di sentirsi radical chic.

Quella è una storia che (per fortuna) non ci appartiene. E dovremmo lasciare agli americani le loro proteste.

E quindi la soluzione sarebbe disinteressarci, direbbero i ben pensanti? Certamente no, ma volendolo fare, iniziamo ad occuparci se si ha voglia delle cose nostre.

Perché il Pd e i sinistroidi 5 Stelle che scendono in piazza non fanno lo stesso per il neo schiavismo che il loro governo avvalla in Puglia, ad esempio, permettendo lo sfruttamento di persone di colore che lavorano come schiavi sui campi a raccogliere pomodori, senza tutele e diritti, e poi dormono qualche ora in baracche di carta allestite al lato delle piantagioni?

Perché non ce la prendiamo con gli italiani che permettono questa forma di schiavismo a casa nostra invece che ricorrere a una vicenda americana?

Mi pongo questa domanda, fra tante, e credo sempre di più che sia più facile guardare dall’altra parte, verso un paese lontano, piuttosto che occuparsi realmente dei problemi.

E’ più facile sedersi su una piazza per un sit in che trovare soluzioni allo schiavismo che ogni estate va in scena nella nostra amata Italia.