Come ben sappiamo FCA Italiy nelle scorse settimane ha ottenuto un prestito di 6,3 miliardi di euro da parte di Intesa Sanpaolo con garanzia dello Stato come previsto nel cosiddetto Decreto Liquidità di maggio che prevede un sostegno al sistema manifatturiero italiano. Ma FCA è ancora un’industria automobilistica oppure una finanziaria?
Per rispondere è necessario tornare indietro di qualche anno, esattamente al 1° giugno 2004 quando l’italo-canadese Sergio Marchionne diventa amministratore delegato di un’azienda, la Fiat, ormai in stato di coma o quasi. L’uomo con il maglioncino blu poco capisce di auto ma molto comprende di finanza e quindi cerca di ingegnarsi per mandare avanti la baracca con quei pochi euro che ci sono in cassa. Da Torino vola più volte a Washington per incontrare l’allora Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ed il suo consigliere per il settore automobilistico, il banchiere Steve Rattner. Se la galassia Fiat non sta bene, l’industria americana dell’automotive non sta meglio e Obama ha tutto l’interesse a silenziare i malcontenti che ovviamente crescono giorno dopo giorno. Alla fine si trova una quadra che va bene a tutti con l’appoggio dell’UAW, il sindacato dell’auto che al di là dell’Atlantico “pesa” non poco.
Ecco quindi che assistiamo ad un matrimonio d’interesse tra il gruppo italiano e Chrysler, azienda anch’essa alla canna del gas con modelli imbarazzanti ed obsoleti e che si regge solo sul marchio Jeep. Obama ci mette la lira, Marchionne l’ingegno, la tecnologia ed un bel po’ di coraggio. Tecnologia… si fa per dire: la Fiat di allora ha un paio di motori decenti, ovvero il Multijet turbo a gasolio e il Multiair a benzina, e qualche piattaforma da cui partire per assemblare modelli. Basta. Di elettrico, o almeno ibrido, non se ne parla e le altre Case europee sono anni luce avanti rispetto a quella di Torino. Del resto è già da qualche anno che il Gruppo pensa più ai dividendi che agli investimenti. Unico lampo di gioia il lancio della 500 nel 2006.
Comunque, Marchionne ci prova: prende gli avanzi Chrysler e prova a riciclarli da noi: la Fiat Freemont non è altro che la Dodge Journey, la Lancia Thema è la Chrysler 300, la Flavia è la Chrysler 200 Cabrio rivista e con marchi diversi. Va dato atto al manager che così facendo e puntando molto sui modelli Jeep ha salvato qualche migliaio di posti di lavoro sia in Italia che in Europa portando il nuovo gruppo, FCA la sua sigla, nella top ten mondiale del settore. A quale prezzo però? La pressochè scomparsa di un marchio prestigioso quale è quello Lancia, l’atrofizzazione dei modelli Fiat (ormai da anni, a parte le effimere Tipo e 124 Spider, la gamma è ristretta a 500 e Panda) e la crisi che dura da qualche stagione di Maserati e Alfa Romeo.
Ormai FCA è un’azienda più americana che italiana (o europea): i due terzi dei ricavi e buona parte dei profitti sono ormai dovuti al marchio Jeep. In questo scenario si inserisce l’ormai prossimo matrimonio con i francesi di PSA (Peugeot, Citroen, Opel e marchi vari) che avranno i ruoli chiave del futuro gruppo.
E si arriva all’emergenza Coronavirus di oggi con la richiesta di liquidità da parte di un’azienda nata in Italia ma con sede legale in Olanda, domicilio fiscale a Londra e ormai testa a Parigi. Ha senso concedergli 6,3 miliardi garantiti dallo Stato? A fronte della pubblicità che vediamo in tv in cui, pomposamente, si annuncia che la Jeep verrà costruita in Italia esiste un piano di assunzioni ed investimenti in Italia da parte di FCA? Quali saranno i modelli costruiti nel Bel Paese? E dove? Come ci si muoverà nell’ormai centrale campo dei veicoli elettrici? Tutte domande legittime a fronte di un così cospicuo assegno staccato da Intesa Sanpaolo e garantito da noi tutti. Soprattutto tenendo conto del fatto che terminate le settimane di cassa integrazione previste dall’emergenza Covid-19 l’azienda ha già chiesto un ulteriore periodo di cassa integrazione ordinaria per alcuni dei suoi stabilimenti italiani, compreso quello di Verrone. Si sa che la tradizione di casa Agnelli è quella di erogare cospicui dividendi agli azionisti e chiedere allo Stato di condividere le perdite ma forse questa volta stiamo oltrepassando il limite.
Gian Domenico LORENZET – #DARDOMENICO